Social media e mondo del lavoro
Sempre più di frequente accade che le aziende forniscano ai propri dipendenti apparecchiature tecnologiche quali computer, smartphone e tablet a fini lavorativi.
È fuori dubbio che la tecnologia possa portare ad un aumento di efficienza e rendere meno gravoso il lavoro, tuttavia nella realtà spesso accade che accanto a questi benefici si possano manifestare delle condotte negative sia da parte del dipendente (utilizzo dei social in orario di lavoro per fini non lavorativi) che da parte del datore di lavoro (controllo dell’operato dei dipendenti).
Il social network può giocare un ruolo determinante per l’inizio di un rapporto di lavoro, essendo ormai prassi molto diffusa il consultare i profili social dei candidati al fine di individuare segnali di possibili incompatibilità con l’immagine aziendale o il contesto lavorativo; e allo sesso modo può risultare determinante ai fini di una decisione di licenziamento, salvo poi dimostrarne la legittimità.
Un caso in particolare risale al 2012, quando una dipendente venne licenziata per aver diffuso commenti diffamatori sulla propria azienda nella propria bacheca Facebook. A tal proposito la Cassazione, nel 2018, affermò a riguardo che “La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca 'Facebook' integra un'ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.”
L’orientamento prevalente, confermato anche dalla giurisprudenza, è quello di ritenere illegittima l’installazione e l’uso di app social e messaggistica sui dispositivi aziendali non autorizzate dal datore di lavoro, il quale può legittimamente esercitare un controllo sull’appropriato utilizzo di tali strumenti aziendali.
In un caso sottoposto al giudizio del tribunale di Bari vennero accolte come prove gli screenshot delle conversazioni avute con lo smartphone aziendale, nei quali risultava che il dipendente aveva divulgato senza autorizzazione informazioni aziendali riservate.
È ovviamente totalmente diverso il caso di comunicazioni private attuate tramite dispositivi personali, in particolare qualora la conversazione avvenga tramite canali privati (si pensi, ad esempio, alla casella di posta personale protetta da password), alla quale l’azienda non è autorizzata in alcun modo ad accedere.